La tendenza è quella di prendere le distanze dal passato, di andare oltre, di credere che quello che è successo allora oggi non potrebbe più ripetersi: nazismo, fascismo per molti rappresentano una condizione storica che ha fatto il suo tempo, e di cui oggi non vale la pena preoccuparsi. Ma in questo modo si sottovalutano le ragioni che hanno trasformato individui apparentemente normali in fautori di un genocidio senza precedenti, sia per orrore sia per il numero di vittime, e che hanno spinto tanti altri a fingere di non sapere ma anche a sostenere scientemente una crudeltà la cui ampiezza lascia senza fiato, con il groppo in gola e piene di vergogna, le persone che oggi si imbattono nelle testimonianze di chi l’ha subita.
La Memoria per essere collettiva deve essere uno strumento che ci riguarda tutti e non perché la deportazione e i campi di sterminio devono mantenersi coscienza per rispetto delle loro vittime ma perché solo servendocene possiamo misurare il pericolo di un ritorno alle condizioni che hanno determinato quell’imbarbarimento e perché queste condizioni si stanno ripresentando identiche anche se i destinatari e gli obiettivi oggi, in qualche caso ma non tutti, sono cambiati.
In un momento in cui, a causa della pandemia, molti che si sono impoveriti temono per il loro futuro e, dominati dall’incertezza, cedono alla tentazione di essere governati da leader forti solo in apparenza, i quali servendosi degli stessi slogan che hanno funzionato allora sanno indicare bersagli su cui i più fragili di spirito possono riversare la propria frustrazione, in un momento in cui basta esser straniero, profugo o “diverso” per essere oggetto su tutti i social ma anche nella vita reale di un odio ignorante e bieco, in questo momento è bene avere in mente di quali bassezze siamo capaci noi umani e quanto sia importante avere solide basi morali per riconoscerle e rifiutarle.
Questo argomento, molto dibattuto in questi giorni, è l’oggetto di una conversazione con l’avvocato Ariel Dello Strologo, Presidente della Comunità Ebraica di Genova. (https://www.cegenova.it/)
C’è una differenza tra la memoria delle persone che hanno subito personalmente quelle persecuzioni, o ne sono figli e nipoti, perché il processo di immedesimazione e il ruolo della vittima in loro è immediato mentre è un po’ più difficile, seppure spesso vissuta con molta empatia, in coloro che non appartengono a quelle famiglie e non hanno quel passato. Quindi mi verrebbe da dire che paradossalmente la memoria è molto meno necessaria per me che sono ebreo che per gli altri perché io non posso sfuggirle: è nei racconti dei miei genitori, è nelle letture che mi riportano non al fatto storico accaduto a me ma a quello che è successo alla mia gente. Questo accade anche ai miei figli, pure essendo nati sessant’anni dopo, quando leggono le storie dei bambini della Shoah.
Il lavoro sulla memoria che il mondo non ebraico ha iniziato a fare dal ’95 in avanti, dopo aver nascosto, cancellato o non aver affrontato il tema per più di cinquant’anni, è stato molto importante perché ha trasformato quella che poteva restare l’esperienza drammatica di un popolo in un’esperienza appartenente a tutti e ha costretto le nuove generazioni a farsi carico di questa storia. C’è stata la presa di consapevolezza dell’accaduto, grazie al lavoro delle scuole, grazie al mondo della cultura che l’ha raccontata attraverso il cinema, attraverso l’arte, attraverso il teatro e la letteratura. Oggi non credo che ci possano essere dubbi sulla realtà di quanto è accaduto. Il revisionismo odierno per certi versi ha cambiato pelle: certo c’è sempre chi dice che non ci sono state le camere a gas e che la Shoah è stata un’invenzione ma oggi, a differenza di quanto avveniva negli anni 50/60, non esiste più il negazionista vero. Piuttosto c’è chi riporta fuori le tematiche del nazismo, dell’antisemitismo provando a rinfocolare queste fiamme di odio, ma sul fatto che sia realmente successo quello che è accaduto direi che ormai la verità è patrimonio comune dell’umanità. Quello che purtroppo l’uomo non sa ancora realizzare è far si che quest’insegnamento si trasformi in uno strumento utile ad impedire il ritorno delle forme ideologiche che lo hanno generato.
Una sorta di rifiuto può venire dal fatto che qualcuno lo considera un problema solo ebraico.
Ci sono vari tipi di reazioni: il disinteresse per esempio che, secondo me, è figlio di un atteggiamento che molte persone hanno nei confronti della storia. C’è una certa fuga dall’affrontare i temi impegnati. L’indifferente non è antisemita, semplicemente vuole vivere senza problemi, non vuole doversi occupare di cose tristi e questo è legittimo ma è chiaro che in questo modo non si fanno i conti con la realtà. Poi c’è chi lo rifiuta perché, inconsciamente, vuole togliersi di dosso il senso di colpa, cioè ha il problema di appartenere ad una società che quelle cose le ha fatte. E con quest’atteggiamento è come se dicesse io non c’entro, non sono stato io. E’ dire basta! Perché continuate a venirmi a cercare, non voglio farmi carico degli errori dei miei genitori, dei miei nonni.
Poi c’è sicuramente una parte di popolazione, che io spero sia molto marginale, che quasi rivendica il proprio razzismo come il ragazzo di Savona, che da un punto di vista psicologico rovescia con un meccanismo di proiezione la sua fragilità e trasforma il suo essere stato sofferente in odio verso gli altri. Ci sono ricerche che hanno analizzato gli episodi di bullismo e risulta che tendenzialmente il mondo che poi degenera nel neofascismo, spesso e volentieri é composto, come nel suo caso, di ragazzi che hanno subito abusi o violenza e che si sono quasi sempre dimostrati personalità deboli che vengono rafforzate dall’adesione a queste ideologie. Il problema è che tutte queste cose, nonostante siano state studiate e approfondite, non si sa ancora come evitare che accadano. Sappiamo bene che centinaia di anni di avanzamento in campo culturale non ci hanno nemmeno liberati dai terrapiattisti. A questo proposito c’è un esempio vero che fa molto ridere anche se è tragico. Ad un certo punto ha iniziato a girare in rete una foto di Steven Spielberg vestito da cacciatore e seduto vicino ad un dinosauro morto. A causa di questa foto, che era indiscutibilmente una foto di scena, Spielberg ha avuto migliaia di minacce di morte.
Come facciamo ad evitare che la gente creda, senza riflettere e senza spirito critico, a qualunque assurdità? E come si arriva ancora oggi a certi abissi di crudeltà da parte di persone che neanche lo sanno che la vita è sacra?
Non abbiamo la risposta. Un tentativo di evitare la componente innata e profondamente bestiale dell’uomo è stato messo in campo dalle religioni. Ma anche quando l’uomo prova a costruire sistemi di pensiero giuridici, filosofici religiosi per provare a evitare il disordine sociale e la violenza, lo fa in chiave repressiva. E’ difficilissimo intervenire in chiave preventiva con un obiettivo finale di successo. L’uomo è stato capace di andare molto in alto col pensiero in quasi tutte le culture dove si è davvero riconosciuta la sacralità della vita, l’importanza dell’uomo e delle relazioni. Ma organizzare la società è un problema che spesso costringe a tradire i propri principi. Le religioni, di fronte alla necessità di trovare la formula concreta per far andare davvero d’accordo la gente, sono scese a compromessi.
Dopo la guerra per milioni di bambini nel mondo è passato un messaggio comune: siamo tutti uguali. Errore clamoroso. Siamo tutti diversi e insegnare ai bambini che siamo tutti uguali significa impedire loro di percepire la positività della differenza. Se gli insegni che siamo tutti uguali appena emergerà una differenza, al primo contrasto, verrà usata per colpire il bambino diverso.
Gli ebrei, per quello che è la loro concezione dell’essere ebrei, sono persone che vogliono continuare a vivere secondo la loro tradizione e tengono ad essere testimoni della loro diversità. Questa pretesa cocciuta e ostinata di mantenersi diversi mette in crisi gli altri perché manca la cultura della pluralità e l’idea che si possa essere nel giusto anche esprimendo concetti opposti ai propri.
La fraternità dell’umanità non risiede nell’uguaglianza: per chi crede siamo tutti figli di Dio, per chi non crede siamo tutti appartenenti alla specie umana, ma non ci somigliamo. Siamo differenti anche all’interno del popolo ebraico. Quello che bisognerebbe riuscire a costruire è un sistema che superi quest’idea della diversità come valore negativo e che impedisca che tutte le volte che si verifica una crisi, che sia individuale o di carattere sociale, la si utilizzi come strumento di conflitto.
Questa valorizzazione sarebbe utile in talmente tanti campi: stiamo parlando di colore della pelle, stiamo parlando di sfera sessuale …
Siamo figli di una cultura occidentale: il compendio della cultura greca con quella giudaico cristiana che ha un problema di fondo e cioè tende all’unità. Il monoteismo, il logos di Aristotele sono pensieri che tendono all’unità come se l’uomo avesse comunque un problema con la pluralità. Nella tradizione rabbinica di commentatori della Torah c’è molta attenzione su questo punto proprio per dire che l’unità, la non pluralità, è una condizione che appartiene solo a Dio. L’uomo è plurale per definizione, l’uomo è necessariamente molteplice secondo i maestri. La stessa legge di Dio nel momento in cui viene data all’uomo diventa molteplice. Non esiste l’interpretazione unica, non esiste una persona che ha diritto più degli altri di dire qualcosa in nome di Dio, non esiste l’idea che il principio monoteistico possa essere applicato alla dimensione del reale. Il reale è molteplice e questa idea è quella che spesso manca perché noi siamo figli di una cultura che ha travisato questo messaggio e ha applicato l’ideale monoteistico alla società. E di questo oggi paghiamo le conseguenze.
Oggi più di sempre i ragazzi scelgono di abbeverarsi a fonti meno profonde e la loro cultura si basa su conoscenze che con tutti questi insegnamenti non hanno niente a che fare.
La cultura, quella che oggi ci sembra che i nostri figli non abbiano più rispetto a quella delle generazioni precedenti, è servita ad evitare la Shoah? No. Oggi le nuove generazioni hanno sicuramente un problema di approccio alle fonti e anche di modalità di studio perché purtroppo la tecnologia li ha abituati a non approfondire più, ma è anche vero che l’accesso alle fonti oggi è immenso. Se guardiamo al passato la Germania è stata il paese più colto del mondo nel Novecento e ciononostante ha partorito lo sterminio degli ebrei, degli zingari, dei malati di mente, degli omosessuali. Ha stabilito un mondo maschilista nel quale le donne dovevano servire semplicemente per dare figli alla patria. Erano coltissimi: quella era la Germania di Kant, di Goethe, di Beethoven, era la Germania di Bertolt Brecht, dell’espressionismo nella pittura, della musica dodecafonica, eppure ha partorito i lager. Questo vuol dire che anche la cultura non è sufficiente, non basta pensare le cose perché si possano realizzare. La fallacità dell’uomo sta nell’incapacità di dare conseguenza ai propri pensieri soprattutto se questi pensieri raggiungono vette eccelse. Dovremmo riuscire a capire le ragioni che ci impediscono di tradurli in realtà.
Abbiamo, in questi anni, portato la consapevolezza di quanto è accaduto ad un punto tale che non sarà più possibile dire che si è trattato di un’invenzione, però non basta. Ci dobbiamo chiedere cosa dobbiamo fare perché non si ripeta sotto altre forme.
Per arrivare ad Auschwitz si sono compiuti milioni di gesti, talvolta talmente piccoli da passare inosservati ai più. Quando oggi un uomo dice al figlio attento quello li è un ebreo, quando scansa, infastidito dalla sua presenza, una persona di colore, quando insulta un omosessuale sta compiendo uno di questi gesti. Ricordare Auschwitz oggi è sapere a cosa può portare questo percorso.
Ginni Gibboni